Riportiamo il testo integrale dell'omelia del card. Matteo Zuppi, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, nella messa per la pace celebrata mercoledì 15 novembre 2023 nella chiesa inferiore della Basilica di Assisi dalla Assemblea Generale Straordinaria della CEI:
«Pace e bene. A noi, a tutti, specialmente a chi è sprofondato nella notte terribile della violenza e della guerra. Abbiamo ascoltato: “Bramate, pertanto, le mie parole, desideratele e ne sarete istruiti”. Nella confusione e nell’incertezza della nostra vita il Signore ci chiede di non restare inerti davanti alla violenza, di non farci mai irretire dalla sua logica, ma di essere con convinzione artigiani di pace. Abbiamo ascoltato un fermo ammonimento ai dominatori di popoli “orgogliosi di comandare su molte nazioni” perché hanno dimenticato che “il potere non è per te”. Questo è vero per chi ha tra le mani il destino di interi popoli ai quali, umilmente ma fermamente, ricordiamo l’invito di Dio e che niente è perduto con la pace. È un ammonimento che sentiamo, però, rivolto a tutti noi.
Vogliamo essere liberi dall’orgoglio, sapendo che tutto quello che abbiamo ci è donato e diventa nostro solo se ricordiamo che non è per noi. Il male è sconfitto quando liberiamo il cuore dall’uso del potere per sé. Solo chi ama possiede e trova se stesso. Solo chi perde, trova. Solo chi serve ha il vero potere. Solo chi è umile compie cose grandi. Solo chi è povero rende ricchi gli altri e trova la sua ricchezza, il cento volte tanto già oggi dove la tignola non corrode e i ladri non portano via. Solo chi è umile riconosce il prossimo e lo rende prossimo. Solo chi è semplice sa capire ciò che è complicato.
La guerra è una lebbra terribile, che consuma il corpo delle persone e dei popoli, ne fa perdere l’anima, tanto che non si è più capaci di amare, segnati dall’odio, dalle ferite della violenza. La Parola di Dio relativizza l’uomo indicando che non è solo, liberandolo dall’orgoglio per trovare sé stesso. La nostra pace non ci è data per vivere per noi stessi, ma per lavorare e ringraziare con la fede che trasforma le lance in falci e fa vivere insieme il lupo e l’agnello. Oggi facciamo nostro il grido di Rachele, di tutte le madri da cui viene un pianto e un lamento grande e non vogliono essere consolate perché “i suoi figli non sono più”.
Sono le lacrime di tutte le Rachele, di intere città e popolazioni, della Terra Santa, dell’Ucraina, di milioni di persone. Sono le nostre lacrime, che diventano preghiera insistente e ispirano azioni e scelte. Tra poco inizierà l’anno dell’ottavo centenario delle stimmate di San Francesco. Le stimmate portano questo amore nel cuore tanto da lacerare il corpo. Francesco “da allora, non riesce più a trattenere le lacrime e piange anche ad alta voce la passione di Cristo, che gli sta sempre davanti agli occhi”. Il mondo è un enorme ospedale da campo. Proprio qui ad Assisi è sorto lo spirito che arriva a pensare “Fratelli tutti”. Papa Giovanni Paolo II lo chiese nello storico incontro del 1986: “Non c’è pace senza un amore appassionato per la pace. Non c’è pace senza volontà indomita per raggiungere la pace. La pace attende i suoi profeti. Insieme abbiamo riempito i nostri sguardi con visioni di pace: esse sprigionano energie per un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie. La pace attende i suoi artefici. Allunghiamo le nostre mani verso i nostri fratelli e sorelle, per incoraggiarli a costruire la pace sui quattro pilastri della verità, della giustizia, dell’amore e della libertà (cf. Giovanni XXIII, Pacem in Terris). La pace è un cantiere aperto a tutti, non solo agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi. La pace è una responsabilità universale: essa passa attraverso mille piccoli atti della vita quotidiana” (27 ottobre 1986).
San Francesco ci ricorda che l’impegno per la pace non è di qualcuno, non c’è mai la pace se il fratello è in guerra. Ogni cristiano ha una straordinaria forza di pace. Anche quando la sua parola sembra non generare nulla. La pace e l’amore, il bene, producono sempre pace e bene, anche quando non lo vediamo. Ed è sempre umile e possibile a tutti. Quando ci fu lo scontro tra il vescovo di Assisi e il podestà della città – si legge nello Specchio di perfezione – Francesco, già malato, disse il suo dolore non solo per il conflitto, ma anche perché nessuno cercava la pace: “È una gran vergogna per noi, servi di Dio, che il vescovo e il podestà nutrano tanto odio l’uno per l’altro, e nessuno si prenda cura di ristabilire la pace tra loro”. Compose allora una strofa in aggiunta alle sue Laudi: Beati quelli kel sosterranno in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati”.
Liberiamoci da pericolose polarizzazioni che nutrono lo scontro e scegliamo con convinzione, intelligenza e forza l’unica parte che è quella della pace. Non si resta a guardare. L’odio produce solo odio e non darà mai sicurezza e pace. Facciamo nostro il grido di Papa Francesco, che in realtà è il grido delle migliaia di bambini uccisi: “Si soccorrano subito i feriti, si proteggano i civili, si facciano arrivare molti più aiuti umanitari a quella popolazione stremata. Si liberino gli ostaggi, tra i quali ci sono tanti anziani e bambini”. Nel cantiere della pace c’è posto per tutti e ognuno, ognuno, ha il suo.
Ecco come vivevano i discepoli di san Francesco: “Quando vanno per il mondo non litighino ed evitino le dispute di parole, e non giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene... In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a questa casa!”. Un uomo di pace la dona a tanti intorno a lui, come fece san Francesco. È il nostro impegno per difendere la Casa Comune e perché sia la casa di “Fratelli tutti”. Non è il sogno ingenuo! È l’appassionato sforzo per costruire pezzo per pezzo la pace. E ognuno di noi ha il suo, importante per tutti. E come il Samaritano torniamo sempre da Gesù per capire la forza della fede che ci ha salvato e può salvare tutti. Un grande vescovo italiano, Don Tonino Bello, fino alla fine artigiano di pace e cantore dell’amore di dio e pregava così:
“Spirito Santo, dono del Cristo morente,
fa' che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero.
Trattienila ai piedi di tutte le croci.
Quelle dei singoli e quelle dei popoli.
Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini.
Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto,
e ripeta con il salmo: ‘le mie lacrime, Signore, nell'otre tuo raccogli’.
Rendila protagonista infaticabile di deposizione dal patibolo,
perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di madre.
In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza.
E donale di non arrossire mai della Croce,
ma di guardare ad essa come all'antenna della sua nave,
le cui vele tu gonfi di brezza e spingi con fiducia lontano”».